No alla secessione Autonomie e unità non sono contrapposte per i repubblicani di Mauro Mita A due anni dalle celebrazioni dei centocinquant’anni dell’unità italiana, definita da Giovanni Amendola "la più grande conquista della storia moderna", la provocazione secessionista di Umberto Bossi, con il rifiuto dell’inno nazionale e del Tricolore, è senza dubbio la metafora di quella deriva che fa dell’Italia il "grande malato d’Europa". Il silenzio di Silvio Berlusconi circa questo "ricatto" leghista è l’altro risvolto di un’acquiescenza che ben spiega le ragioni dell’attuale malessere nazionale. Alle farneticazioni leghiste sullo studio dei dialetti nei programmi scolastici e, quel che è peggio, sulla presunta esistenza di una "nazione padana" da coniugare con un malinteso "federalismo", ha risposto già Romagnosi, maestro di Cattaneo, alla fine del Settecento, indicando nel processo federativo unitario la via da percorrere come sbocco della questione nazionale. "Le piccole teste – diceva – sono soggiogate dall’idea dell’uniformità. L’uniformità poi è più comoda perché di-spensa dal pensare. (…) I gretti ammiratori d’un aspetto solo ben ordinato crederebbero di peccare soggiungendo varietà". Che le istanze delle autonomie locali possano trovare la loro composizione nella corretta attuazione della nostra Carta costituzionale è cosa che è stata ben prevista nell’atto di nascita della Repubblica, quando alla Costituente si ricordò che già Marco Minghetti, nel dibattito parlamentare sull’assetto amministrativo dell’Italia appena unificata, sottolineò che "Mazzini è federalista quanto Cattaneo, e Cattaneo è unitario quanto Mazzini". E’ il binomio che ha fatto e fa l’identità del Partito repubblicano. Combinare, senza distruggerli, i due termini di Romagnosi, "uniformità" e "varietà", porta appunto a quel federalismo unitario che Cattaneo identificava nel "colosso italiano", figlio di un processo di una storia mai compiuta e che sempre si compie. L’Italia, scriveva Saverio Vertone in un saggio del 1994 dal titolo "La trascendenza dell’ombelico" (edizioni Rizzoli), "non è nata con il Risorgimento, con Garibaldi o Mazzini ma in un momento imprecisato tra Annibale e Augusto". Ma, sempre parole di Vertone, "un Paese che esisteva da duemila anni nella coscienza dei suoi abitanti, oggi crede di non essere mai esistito". Quest’opera di demolizione dell’identità nazionale non si è consumata con Bossi, con Berlusconi o con Prodi, ma ha molti padri, complice la cultura ufficiale o almeno una sua parte, quando giornalisti, professori, accademici, assessori alla cultura, presidenti di Regione, organizzatori di mostre e via discorrendo hanno fatto a gara per tagliare le radici che univano il nostro popolo alla sua storia e alla sua geografia. Quest’opera di demolizione collettiva è il risultato di cui ognuno può reclamare la sua parte. Così, ancora Vertone, "mentre si giocava in Borsa, mentre si esaltava il sommerso e non si pagavano le tasse, un’alluvione di ignoranza si abbatteva su tutto sradicando al suo passaggio nozioni consolidate, verità elementari, ovvietà banali, dati fisici, ricordi letterari, consuetudini linguistiche: più o meno il bagaglio di cognizioni e sentimenti che una nazione si porta dietro per non andare sotto nei momenti difficili". Bossi non è che l’erede di questa lunga opera di demolizione dell’identità nazionale. Che cosa è la vittoria elettorale della Lega, se non la reazione istintiva ad una lunga pratica di non governo e di mal governo fatta di edilizia e tangenti, di antropologia e di assistenzialismo all’ombra di "marxismi rimbecilliti" e di "cattolicesimi sperduti"? Conclusione di Vertone: "Siamo i più europeisti, ma non abbiamo capito che per essere europei bisogna essere una nazionalità e non un’etnia. Si è europei in quanto francesi, spagnoli, tedeschi, olandesi, inglesi o russi. Se si è bosniaci o brianzoli, croati o monferrini, lucani o sloveni, si entra a far parte dei rimasugli, della polvere di scarto, dei prodotti non finiti della storia, insomma di quei residui etnici o avanzi irrazionali del passato che formano la vasta diffusa nazionalità degli apolidi". La sola risposta agli esclusivismi etnici sta nei due termini della cultura democratica fondata sull’interdipendenza dell’unità e della diversità, e che si nutre di quel dibattito permanente sulla frontiera permanentemente mobile che separa l’una e l’altra e sui mezzi migliori per coniugare la loro associazione. Ed è anche la risposta che la cultura democratica non può non dare all’ostilità leghista sia al Tricolore che all’inno nazionale, scritto da un giovane ventenne, Goffredo Mameli, nel 1847, due anni prima dell’eroica caduta della Repubblica romana. Quell’affiliato alla Giovine Italia di Mazzini, immolatosi all’età di ventidue anni in una luminosa testimonianza di fede e di martirio, va accomunato ad una folta schiera di giovani che hanno fatto il nostro Risorgimento: un momento irripetibile, non solo della storia italiana. Se ne è certi: nel Parlamento italiano il leader leghista – specularmente, proprio come il padre padrone della cosiddetta Italia dei Valori, Antonio Di Pietro - resta un isolato. Roma, 21 settembre 2009 |